L’autunno, più o meno da sempre, porta con sé delle temperature civili, la meravigliosa festa di Halloween e il circo. Nei mesi di novembre e dicembre, negli spiazzi di parcheggi di periferia, nelle varie cittadine italiane, sorgono i tendoni variopinti delle varie famiglie circensi con i loro spettacoli stantii, i carri carichi di animali esotici e, da qualche anno, il codazzo di indignate polemiche animalare per l’uso e lo sfruttamento delle povere bestie per il divertimento di grandi e piccini.

Diciamoci la verità, al di là di ogni altra considerazione, il circo con o senza animali, ha fatto il suo tempo, vedere un elefante salire sullo sgabello con un ombrello nella proboscide è uno spettacolo tanto antico quanto triste e se è innegabile che, in molti casi, i circensi trattino gli animali quasi come membri della famiglia, se non altro perché come in tutte le culture nomadi o contadine, contribuiscono a dare loro di che vivere, più volte sono stati segnalati maltrattamenti sugli animali come, appunto, in tutte le culture nomade o contadine. 

Il progresso, lo sappiamo, dovrebbe portare a un’evoluzione della civiltà e con essa l’umanità dovrebbe tendere a minimizzare lo sfruttamento di qualunque essere vivente, tuttavia certe conquiste  non possono essere imposte da nessuno, tantomeno da una minoranza chiassosa, ma passano attraverso la maturazione di una coscienza collettiva che riconosca il giusto ruolo di ogni organismo vivente (no, non tutti gli esseri viventi sono uguali, ci sono proprio delle differenze strutturali, come dice Alessandro Barbero parlando di uomini e donne, ma questa è un’altra divertentissima storia).
 
Pensare di forzare il progresso con le imposizioni su questioni simboliche, come può essere appunto il circo rispetto al reale sfruttamento di tutti gli esseri viventi, può portare solo a contrapposizioni di natura ideologica ma non risolve, nei fatti, nulla o quasi. Il circo esiste perché esiste chi ci va, e sono tanti, molti di più dei rissosi animalari che fanno casino davanti ai tendoni, con buona pace di qualche sindaco che, cavalcando l’onda dell’indignazione social, talvolta emette ordinanze tanto stupide quanto illegittime. La soluzione quindi non è vietare, non lo sarà mai, nonostante un certo fascismo del politicamente corretto, la soluzione è sempre quella di cercare di progredire verso un futuro migliore, più umano ed inclusivo direbbero quelli del club dei buoni ad oltranza, e questo è un processo relativamente lento, che richiede pazienza, corretta informazione e studio.
 
Arroccarsi nella posizione più facile, “via gli animali dal circo”, nella migliore delle ipotesi risolverebbe il problema di qualche decina di animali esotici in parte del mondo occidentale (animali che comunque, con tutta probabilità, dovrebbero essere abbattuti o chiusi in uno zoo) di sicuro non aiuterebbe a raggiungere quelle necessarie conquiste di civiltà che consentano di trattare tutte le forme di vita per il loro ruolo nell’ecosistema rispettandone gli istinti e le peculiarità, senza volerle ridurre nella stessa nicchia ecologica degli esseri umani, antropomorfizzandole con una violenza infinitamente più forte della loro sottomissione ai bisogni ludici o comunque non necessari dell’essere umano
 
 

Guardate questa foto: la nostra piccola eroina svedese utilizza un megafono a batterie, ripresa da diversi cellulari, plastica, metalli rari, batterie, energia di CED sparsi per il pianeta…(1) ma lo fa a fin di bene, ne sono certo, almeno dal suo punto di vista.

Ragazzi miei, in questi giorni avete manifestato, il giorno prima per il clima e il giorno dopo perché rivendicate il (sacrosanto) diritto di essere trasportati a scuola dal più alto numero possibile di giganteschi mezzi pubblici che se, magari, inquinano sempre meno, comunque inquinano e di sicuro riscaldano, intasano il traffico. In ogni caso di muovere il culetto non se ne parla, al peggio c’è sempre la mamma col SUV, disponibile a scarrozzarvi fin dentro l’atrio della scuola, andare a piedi o in bicicletta non è nelle vostre corde, al limite il monopattino a batterie che è sempre trendy. Ricordate il vostro mitologico nonno che attraversava campagne e colline, per chilometri con le scarpe rotte, sfidando il freddo e la neve, solo per andare a scuola? Oppure solo mio nonno era così stronzo da volermi fare sentire in colpa?
 

Se fa appena caldo, pretendete l’aria condizionata, se fa appena freddo pretendete il riscaldamento, passate le vostre giornate fra tv, consolle, tablet, computer e smartphone, mangiate cibo confezionato in imballaggi di plastica, cibo fuori stagione che proviene spesso dall’altra parte del mondo, trasportato su gigantesche chiatte in enormi container o in aerei cargo per fare prima. Vi nutrite con quantitativi esagerati di carne a meno che non vi dichiariate vegani, in quel caso non andate su pasta e fagioli, no: dovete mangiare veggie burger, prodotti industrialmente e realizzati con proteine vegetali, legumi, cereali, verdure, glutine di frumento, addensanti e addizionati con vitamina B12, che necessitano di più risorse al kg di un allevamento di mucche al pascolo.

Siete in assoluto la generazione più energivora della storia, avente un’impronta ambientale 10 volte maggiore di quella dei vostri genitori, la vostra stessa protesta viene diffusa con mezzi che hanno costi ambientali incalcolabili.

Badate bene, E’ GIUSTO COSI’ ma esattamente contro chi state protestando? Chi dovrebbe aiutarvi se non voi stessi oppure, come sempre, Not In My Back Yard?
Se poi si tratta di fare sega a scuola, sarò sempre dalla vostra parte.
 
(1) Il ciclo di vita di uno smartphone si aggira intorno ai due anni e costruire un nuovo telefono richiede materiali rari che da soli rappresentano 85%-95% delle emissioni di CO2 per i suoi successivi due anni di vita.

Parliamo della rabbia tra marito e moglie. Come sapete negli ultimi sette giorni ci sono stati sette delitti, sette donne uccise presumibilmente da sette uomini. A volte è lecito anche domandarsi: però questi uomini erano completamente fuori di testa, completamente obnubilati oppure c’è stato anche un comportamento esasperante e aggressivo anche dall’altra parte? È una domanda, dobbiamo porcela per forza, siamo in un tribunale e dobbiamo esaminare tutte le ipotesi

Così Barbara Palombelli dal palcoscenico di Forum, pluridecennale trasmissione televisiva, più farlocca di un episodio di Suits e oggi da lei condotta. 

Ora del pensiero della giornalista Palombelli poco mi importa, non mi interessa analizzare le sue parole per capire cosa realmente volesse dire, come ha detto giustamente un’amica, però, l’osservazione della Palombelli è lecita, ben prima di essere “giusta” o “sbagliata“.

La vita reale è ben più complessa di uno scenario in cui la donna che subisce violenza è una vittima inerme, questo non significa giustificare la violenza o cercare attenuanti di fronte ad un atto vile e criminale ma ciò non comporta nemmeno che non si possa più ragionare sui singoli casi, che non si possa più indagare se il più “debole” possa aver usato (o meno) ad un certo punto degli strumenti per ribaltare i rapporti di forza. Dobbiamo limitarci a provare pietà per la vittima, e a condannare senza appello il carnefice.

Nel 2021, fino ad ora, sono 65 le donne morte ammazzate a causa della violenza dei propri uomini e la questione va affrontata da ogni punto di vista, anche quello delle donne che non perdonano, che accusano, che colpiscono, sentendosi nel giusto, senza badare ai traumi e al dolore che causano, non alla ricerca di una scusante ma di qualunque fattore da attenzionare per prevenire il femminicidio.

Oggi non è più lecito fare osservazioni o sollevare domande che vadano contro la dittatura del pensiero unico politicamente corretto. Barbara Palombelli è stata vittima, nelle ultime 24 ore, di una campagna social diffamatoria senza precedenti per aver detto, magari, una sciocchezza, per aver posto, alla fine,  una domanda assolutamente lecita, lecita perché in uno stato di diritto funziona esattamente così. Opinionisti social, giornalisti, politici, tutti accomunati da una visione stereotipata e semplicistica della società, hanno sparato ad alzo zero contro una donna con una violenza terribile, una violenza che affonda le radici nello stesso humus che spinge un uomo a picchiare, violentare, uccidere una donna: la prevaricazione.

Io stesso ho pensato di tornare a rifugiarmi qui, non tanto perché intimorito dalla violenza social di quattro disagiati, quanto perché sto invecchiando, forse nemmeno tanto bene, e sono spossato dall’azione di discutere con i troppi snowflakes dai modi gentili ma dall’animo torbido.

 

 

 

 

E’ sempre un piacere ascoltare le parole di Vittorino Curci, lui si definisce poeta e sassofonista improvvisato, ma in realtà è semplicemente uno dei più importanti intellettuali pugliesi viventi con una cultura sterminata che spazia dagli autori classici a quelli contemporanei, anche sconosciuti ai più, e sentirlo parlare, è sempre fonte di nuovi spunti di riflessione.

Il suo intervento di ieri sera a Trani, guastato in parte dal maltempo, a cui ho assistito con estremo interesse, era incentrato sul ricordo di Franco Cassano, il grande sociologo barese scomparso nel febbraio scorso, tuttavia io sono rimasto colpito da alcune osservazioni su una parola a noi oggi tanto cara.

A me piace tanto giocar con le parole e non ci avevo mai riflettuto, ma questa sostenibilità è davvero una roba brutta.

Curci ci racconta intanto che, in analisi grammaticale, si tratta di un nome astratto e poi che, un po’ come tutte le parole con l’accento sull’ultima sillaba, esprime quel senso di assolutezza, categoricità, che non ammette discussioni, concludendo che difficilmente questa parola potrebbe trovar posto in una sua poesia.

La riflessione più interessante però è che la parola sostenibilità porta in grembo un’altra parola da cui, oggi non può più affrancarsi, ed è la parola sviluppo. Fateci caso, sostenibile non può, ormai prescindere da sviluppo, anche in altre lingue, e anche quando il linguaggio cerca di eliminare il terribile “sviluppo” inteso come crescita economica accompagnata da una continua innovazione delle tecnologie impiegate nella produzione di beni o servizi, di fatto la ingloba nel concetto di sostenibilità. Vediamo che dice la Treccani in proposito.

Nelle scienze ambientali ed economiche, condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri. Il concetto di sostenibilità è stato introdotto nel corso della prima conferenza ONU sull’ambiente nel 1972, anche se soltanto nel 1987, con la pubblicazione del cosiddetto rapporto Brundtland, venne definito con chiarezza l’obiettivo dello sviluppo sostenibile che, dopo la conferenza ONU su ambiente e sviluppo del 1992, è divenuto il nuovo paradigma dello sviluppo stesso.

Capite l’ipocrisia della parola? Ora, io personalmente non ho niente contro lo sviluppo, anche quello insostenibile, in generale però il concetto è abbastanza inviso a un certo ecologismo di maniera e a una certa sinistra da salotto. Pierpaolo Pasolini, per dire, nei suoi “Scritti Corsari” differenziava i concetti di Sviluppo e Progresso, lui diceva

La “massa” è dunque per lo “sviluppo”: ma vive questa sua ideologia soltanto esistenzialmente, ed esistenzialmente è portatrice dei nuovi valori del consumo. Ciò non toglie che la sua scelta sia decisiva, trionfalistica e accanita.

Chi vuole, invece, il “progresso”? Lo vogliono coloro che hanno interessi immediatamente da soddisfare, appunto attraverso il “progresso”: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e dunque è sfruttato.

sostanzialmente, Pasolini, dipingendo lo sviluppo come qualcosa di destra, ricercato dai potentati economici e il progresso come qualcosa di sinistra, nozione ideale, sociale e politica e riconoscendo che non c’è progresso senza sviluppo, esprime esattamente il concetto di “sviluppo sostenibile” che ha dato origine, oggi, a quella parola ipocrita che è sostenibilità.

Il concetto di Sostenibilità nasce, dunque, perché altrimenti non hai modo di spiegare allo scemo di guerra, eterno fuori corso all’università, che va a fare i sit-in per Greta, ma anche allo stesso mostriciattolo svedese, che nessun G20 per l’Ambiente pensa lontanamente di rivedere il modello capitalista ma che, in realtà, questi Sustainable Development Goals, non sono altro che un modo per creare nuovo sviluppo a vantaggio degli stessi soggetti che fino a ieri perseguivano una crescita senza regole.

Vabbè vado a bermi un the freddo industriale e a fare una marcia per il pianeta.

 

Questo post nasce da una discussione in real life, evento ormai sempre meno frequente in una società sempre più orientata ai social e dove da un paio d’anni a causa dei noti problemi sanitari(diciamo così) si cerca di spostare la socialità sempre più in un ambiente virtuale.

Il discorso verte sostanzialmente su l’idea di un forte ridimensionamento del settore pubblico in Italia che ha dimostrato, proprio in questo momento pandemico, tutti i suoi limiti e diverse nefandezze, privatizzandolo per quanto possibile. Pure la Sanità? Sopratutto la Sanità! E qui inizia la discussione.

In questi mesi, quante volte abbiamo dovuto leggere o ascoltare pletore di imbecilli che predicano nei confronti di coloro che per vari motivi rifiutano il salvifico vaccino, circa il fatto che in caso di malattia avrebbero dovuto pagarsi le spese mediche? Un giorno di terapia intensiva costa 1000, 5000, 10.000 euro a seconda dell’interlocutore, di certo queste spese non possono essere a carico di coloro che hanno rischiato la propria vita iniettandosi il vaccino per il bene degli altri (oh dicono e pensano davvero così). Bene io sono d’accordo, d’accordissimo! La sanità pubblica universale nasce da un patto di solidarietà dei cittadini che versano parte delle proprie tasse per supportare le cure di tutti, io personalmente sono più per un modello tedesco (misto pubblico-privato), di certo quando, come nel caso del “pagati le cure“, questo principio di solidarietà viene meno io ti dico, più o meno provocatoriamente, benissimo io preferisco il modello americano. E qui partono gli anatemi. Ma come? Gli americani muoiono per strada quando hanno anche solo un raffreddore!

Uno dei più noti stereotipi contro gli yankee è questa storia della gente che muore nei pronto soccorsi perché non può pagarsi l’assicurazione. Ora è vero che il servizio sanitario negli USA è al 100% privato e nelle mani delle compagnie assicurative, com’è vero, però, che da sempre lo Stato Federale copre le spese per gli over 65 e per coloro che vivono sotto la soglia di povertà. Questo modello di sanità negli USA ha sempre funzionato bene e mai nessuno è morto per strada, almeno fino al 2008, quando la crisi economica ha messo in difficoltà il ceto medio che non è più stato supportato da polizze assicurative. Qui entra in gioco Barack Obama che, nel 2010, mette in piedi l’Affordable Care Act, meglio conosciuto come Obamacare, che di fatto avvicina il modello sanitario americano a quello tedesco allargando la copertura sanitaria federale agli indigenti e imponendo alle compagnie assicurative dei vincoli che impediscono di rifiutare polizze a chi abbia malattie pregresse oltre a eliminare i tetti di spesa.

Personalmente piuttosto che pagare il 50% di tasse di cui il 20% va a coprire i costi di un sistema sanitario inefficiente e che non investe in ricerca, preferisco affidarmi alle compagnie assicurative o a un modello sanitario misto.

Come sistema sanitario inefficiente? Non ricordi i nostri angeli del Covid? Ragazzi miei io quello che ricordo è che medici di famiglia e pediatri di libera scelta, durante le varie ondate pandemiche, sono letteralmente spariti dalla circolazione, se andava bene lavoravano in smart working come un qualsiasi impiegato del catasto e lo dico anche per esperienza personale. Ma non è che in ospedale sia andata tanto meglio, eh! Reparti intasati anche con numeri che avrebbero dovuto essere sostenibilissimi, risultati dei tamponi oltre le 48 ore e totale caos e disorganizzazione, senza contare le aziende sanitarie locali completamente allo sbando. Certo non è colpa del personale sanitario, non di tutto almeno, solo di quello che invece di lavorare si faceva i selfie in corsia per raccontare sui social quanto lavorasse.

Tutto ciò per voler tacere degli enormi sprechi della sanità pubblica che prescrive costosi esami clinici anche lì dove non ce ne sarebbe bisogno solo per condividere con altri specialisti la responsabilità di una diagnosi.

Ma al di là di ogni altra considerazione su sprechi e inefficienze, se devo vivere in un Paese dove la solidarietà vale solo se sei ideologicamente d’accordo con una certa visione del problema, preferisco una totale deregulation dove ognuno per se e dio per tutti, perché, cari miei, che vi riempite la bocca con la frase “lo dice la scienza“, dovete sapere che in realtà la scienza non dice proprio nulla. A parlare è, quasi sempre, la tecnologia, che è solo una vista sull’immensità della ricerca scientifica e che si limita a utilizzarne alcuni principi e la medicina è molto più vicina alla tecnologia che alla scienza. La verità è che è molto più titolato a parlare di scienza un filosofo come Cacciari, di cui beninteso non ho mai condiviso la visione del mondo, che un virologo come Burioni.