Una tecnologia sperimentale permette allo psicologo  di entrare nella mente dei pazienti e tentare una terapia “dall’interno”, da questo spunto nasce “The Cell – La Cellula” un horror fantascientifico del 2000 diretto da Tarsem Singh.

La dottoressa Catherine Deane sta tentando, utilizzando questa nuova tecnica ma con scarsi risultati, di risvegliare un bambino dal coma; pur essendo entrata in contatto con il piccolo ed averne conquistato la fiducia, però, la psicologa non riesce in alcun modo a riportarlo indietro. Proprio quando l’ospedale sta per decretare il fallimento della nuova terapia, l’agente dell’FBI Peter Novak contatta Catherine per chiederle di entrare nella testa di un serial killer, caduto in stato di coma poco prima di essere catturato e aiutarlo, così, a salvare  la prossima vittima. Stargher, il serial killer, infatti rapisce delle donne e le imprigiona in una cella ermetica che viene riempita pian piano d’acqua fino all’annegamento della povera malcapitata che successivamente viene trasformata in una specie di bambola per soddisfare le perversioni del mostro. L’ultima vittima di Stargher non è stata ancora ritrovata e potrebbe essere ancora viva.

Da qui in poi tutto il film diventa il viaggio nella mente di un pazzo, dove anche Catherine, che passa dal ruolo di guerriera sexy a quello di suora, rischia più volte di perdersi in un susseguirsi di visioni oniriche, ricordi mischiati a perversioni e dove come in un trip di ecstasy non si riesce più a distinguere la realtà dal sogno psichedelico di una persona disturbata.

Il film non brilla certo per la recitazione di Jennifer Lopez nei panni di Catherine e nemmeno per la regia schizofrenica che, se si giustifica durante la parte onirica, realizzata per disturbare lo spettatore, non ha senso nel resto del film, sopratutto nella prima parte che rimane totalmente e inspiegabilmente slegata dal resto della storia.

Se compri una macchina con una Finanziaria e non paghi le rate prima o poi arriverà l’agenzia di recupero crediti che ti porterà via l’auto, se non paghi le rate del mutuo della casa, la banca, presto o tardi, te la toglierà per venderla all’asta, ma se non paghi le rate del fegato di ricambio? Siamo in un futuro non troppo troppo lontano, la medicina ha fatto passi da gigante nel campo dei trapianti e la Union commercializza i più avanzati organi sintetici, salvando la vita a tantissime persone, ma la Union non è un ente benefico, il trapianto costa caro e non tutti hanno il denaro per potersi permettere un cuore nuovo. Niente paura però, la Union ha pronta per ognuno una linea di credito personalizzata per permettere a tutti di salvarsi la vita… devi farlo per la tua famiglia, devi farlo per te… e se non puoi pagare le rate? Beh dopo tre mesi verrà qualcuno a recuperare il “tuo” organo e poco importa se questo ti serve per vivere.

Repo Men, tratto dall’omonimo romanzo di Eric Garcia, è la storia di Remy (Jude Law) un recuperatore della Union, un livello 5, addestrato per i recuperi più complessi, spietato, cinico almeno fino a quando non finisce per ritrovarsi dall’altra parte. A causa di un “incidente”, infatti, Remy si ritrova con un cuore nuovo da pagare; la sua nuova condizione, tuttavia, lo porta ad una profonda riflessione sul suo lavoro e lo convince a tradire e combattere i suoi stessi ex-compagni.

Il film, alla fine, è un action movie molto godibile e ricco di colpi di scena, per quanto, in un certo senso, annunciati, con un Jude Law che non lesina nel mostrare pettorali e addominali scolpiti. Miguel Sapochnik, alla regia, si abbandona troppo spesso a immagini splatter  non necessariamente funzionali alla storia e non approfondisce più di tanto l’aspetto “morale” di una società dove “o paghi o muori”. Ad ogni modo il film scorre piacevolmente e nemmeno ci si accorge che sono trascorse due ore.

Questo è il periodo delle pandemie cinematografiche, dopo “28 Days Later” è la volta di Blindness, per la regia di Fernando  Meirelles, altra pellicola con protagonista una bella epidemia quasi letale, basata, questa volta, sul romanzo dello scrittore portoghese José Saramago, Ensaio sobre a Cegueira che, purtroppo, non ho mai avuto modo di leggere.

Tutto comincia con una strada trafficata e un auto che improvvisamente si ferma bloccando la circolazione. L’autista sembra stare male, viene soccorso dagli altri automobilisti e racconta di essere diventato improvvisamente cieco, ma di una cecità strana, la vista non è scomparsa nella tenebra ma la sua retina sembra impressionata da una luce bianca e lattiginosa.

Quello che può sembrare un interessante caso clinico, però, non è altro che il paziente zero di un’epidemia sconosciuta di cecità che, in breve tempo, sembra diffondersi in tutto il mondo. L’epidemia, tuttavia, non è altro che un espediente narrativo per mostrare l’impatto sulla società di un elemento destabilizzante come la perdita quasi simultanea della vista.

Per tutto il film si assisterà ad un’involuzione sociale, ad un imbruttirsi dell’umanità dove in poche settimane torna a prevalere l’egoismo e la violenza, dove l’importante è la sopravvivenza e dove sono i più forti ad avere il sopravvento; tutto ciò viene raccontato attraverso gli occhi della moglie del medico che per primo ha visitato il paziente zero(nessun personaggio nella storia viene identificato per nome), l’unica persona, sembrerebbe, rimasta immune all’epidemia, una donna che da sola è costretta a reggere il peso di un’umanità in disfacimento e nello stesso tempo ad essere l’unica speranza di rinascita per un mondo sprofondato negli abissi dell’inferno. Una bellissima Julianne Moore che si adatta benissimo al ruolo di una donna che, nel corso della storia, cambia profondamente, anche fisicamente, ma che per tutto il tempo riesce a centralizzare su di se e attraverso la luce dei suoi occhi il ruolo di faro dell’umanità.

Ad un certo punto, come tutto è iniziato, tutto finisce. Il paziente zero, come l’aveva improvvisamente persa, così riacquista la vista alimentando la speranza che, pian piano, tutto torni alla “normalità”; immediatamente si avverte un clima più sollevato; il mondo, di nuovo, si ferma per aspettare, questa volta, che si riaccendino le luci. Si avverte il sollievo della moglie del medico, come se si fosse scaricata di un enorme fardello ma, nello stesso tempo, sembra quasi di intuire una sorta di delusione da parte della donna per non essere più al centro del mondo in bianco.

Film da vedere, se non altro è un pugno nello stomaco.


Prendi “Incontri Ravvicinatio del Terzo Tipo” mescolalo con “E.T. Telefono Casa” aggiungi “Cloverfield” shakera ben bene, metti un pizzico di “Lost”… signori “Super 8”, il nuovo film della premiata ditta Spielberg-Abrams, è servito.

Siamo verso la fine degli anni ’70 e un ragazzino cicciotto e sfigato vuole partecipare a un contest con un film  horror amatoriale sugli Zombi girato in super 8. Nell’impresa coinvolge tutti i suoi amici, sfigati come lui e riesce a convincere anche la ragazzetta figa della scuola. Da qui fra amori adolescenziali, alieni, complotti governativi e tradimenti si snoda una storia, ambientata nella provincia americana, tutto sommato godibile ma tutt’altro che originale. J.J. Abrams, ancora una volta, si conferma abile nel confezionare un prodotto commerciale che va bene per tutte le fasce d’età e per gli amanti di tutti i generi utilizzando, questa volta, l’approccio “bambinesco” e “buonista” alla fantascienza tipico di Stephen Spielberg, fantascienza che viene usata in maniera strumentale alla trama dove, nonostante la bravura di Abrams nel celare il mistero fino a metà film, l’espediente avrebbe potuto essere qualsiasi altro.

Tutto sommato un film da vedere se si cercano un paio d’ore di evasione e se si è nostalgici dei vecchi film di Spielberg degli anni ’80.

Un gruppo di animalisti fa irruzione in un laboratorio di ricerca per “salvare” alcune scimmie utilizzate per degli esperimenti. Agli animali è stato inoculato infatti, un agente patogeno, una  variante del virus della rabbia, per poi essere sottoposti alla visioni forzata di immagini di violenza.  Appena libere le scimmie mordono uno degli animalisti contagiandoli. 28 giorni dopo Jim, un corriere irlandese in coma dopo un incidente stradale si risveglia in una Londra inaspettata.

Questo film britannico, del 2002, un horror fantascientifico per la regia di Danny Boyle, mi era sfuggito e mi è capitato di vederlo quasi per caso. Mi aspettavo un B-Movie invece, nonostante la tematica un po’ abusata del virus “letale” e i richiami agli zombi sempre troppo sfruttati, la trama si svolge in maniera dinamica e coerente senza mai scadere, come sarebbe facile e prevedibile nel banale e riuscendo ad allontanare il senso di “già visto” che sarebbe lecito aspettarsi da una pellicola come questa; nonostante i pochi mezzi con cui è realizzato nel film, poi, c’è una grande cura della fotografia e ogni scena sembra studiata nei minimi dettagli.

“28 giorni dopo” non spicca, tuttavia, per la capacità recitativa degli attori protagonisti (Cillian Murphy e Naomie Harris) e, in particolare, quello che sarebbe stato il futuro nono Dottor Who (secondo me fra i migliori), Christopher Eccleston, qui nei panni del maggiore di una milizia scampata al virus, non ci fa una gran bella figura.

In definitiva un bel film da vedere.