Con questo post riprendo la tematica di qualche settimana fa a proposito di modello standard, lavoro e giovani (iniziato da questo post) per commentare le frasi del ministro Fornero  e la polemica seguita alle sue parole pronunciate ad un convegno a Milano; vediamo esattamente cosa ha detto il ministro.

<…>i giovani escono dalla scuola e devono trovare un’occupazione devono anche non essere troppo “choosy” come dicono gli inglesi, cioè, io lo dicevo sempre ai miei studenti: prenda la prima, poi da dentro lei si guarda intorno, però bisogna entrare nel mercato del lavoro, subito<…>

Tralasciando i piagnistei della Rete circa la semantica e il significato da attribuire al termine “choosy”, le parole del ministro sembrerebbero dettate dal buon senso,  sembrerebbero…  In realtà queste frasi le ho già sentite dalla bocca di mio padre e di mio nonno quando consapevolmente o meno mi introducevano in quel modello standard di cui abbiamo già parlato e che oramai è in profonda crisi.

«Accetta qualunque lavoro, ogni lavoro ha la sua dignità» quanto queste sciocchezze hanno contribuito ad alimentare il contorto meccanismo di precarietà e di perdita dei diritti del lavoratore? Va detto che nessuno della generazione di mio padre, nonostante queste frasi le abbia pronunciate più di una volta, avrebbe accettato meno di un posto fisso e del salario minimo garantito eppure  oggi ci si chiede di essere flessibili, di accettare lavori sotto-pagati, di sottostare al giogo di un sistema squilibrato che vede sempre più calpestati i diritti degli individui con la scusa della “Crisi” e in nome di un “Lavoro” assurto a valore morale. Ma la cosa peggiore è che, al contrario di quello che crede il ministro Fornero, i giovani, disposti a scannarsi per un posto in un call-center, quelli che nascondono le proprie competenze durante i colloqui per paura di non essere presi, la lezione l’hanno imparata fin troppo bene, quasi quanto bene l’hanno imparata le odiose PMI che oggi sanno di potere avere, per un lavoro sotto-pagato, una fila di centinaia di persone alla porta disposte a farlo; certo poi si lamentano delle scarse competenze o del fatto che questi gggiovani d’oggi non vogliono lavorare al sabato, ma per meno di ottocento euro al mese che cosa pretendete?

A queste condizioni il lavoro non solo non è un valore ma è meretricio e c’è poco da dire che da dentro ci si guarda intorno, quando cominci a fare la puttana è difficile uscire dal giro. Quindi anche io qualche consiglio da dare ai ragazzi che devono scegliere la scuola o che si avvicinano al mondo del lavoro:

1) Studiate quello che sentite vicino alle vostre aspirazioni e ai vostri desideri, non è vero che ci sono lauree inutili ma solo persone inutili;
2) Coltivate le vostre passioni, non abbandonatele mai e non abbiate paura di essere criticati per questo, loro,  le vostre passioni, vi ripagheranno sempre e in un modo che non potete nemmeno immaginare;
3) Se non avete la necessità di lavorare non accettate mansioni lontane dai vostri desideri, sappiate che state per vendere un terzo del vostro tempo per un tozzo di pane, fate in modo che sia il meno doloroso possibile;
4) In ogni caso non accettate mai di lavorare per un salario non adeguato alle vostre competenze o peggio gratis, la notorietà non riempie la pancia e l’acquisizione di esperienza non è un adeguato corrispettivo alla fatica inoltre la svendita delle competenze distrugge il mercato a favore di ladri e sfruttatori.

Mi rendo conto che non è facile seguire i miei consigli, non so se io li seguirei, un po’ per colpa del modello standard che ci hanno inculcato e un po’ a causa del fatto che, alla fine della fiera, le chiacchiere stanno a zero e  bisogna portare a casa la pagnotta. Quelli che però possono farlo, non diano retta al ministro Fornero e cerchino di seguire le proprie passioni e di aspirare, quando meno, a vivere una vita degna di essere vissuta.

Ieri sera ho letto casualmente la parola «Ontario» che ha scatenato in me una serie di associazioni mentali che mi hanno riportato indietro nel tempo a quando, più o meno a 7 anni, leggevo i fumetti Bonelli di mio padre e in particolare ero affascinato dalle avventure del Comandante Mark (OK erano le edizioni Araldo, ma ci siamo capiti), ci sarebbe anche Mister NO, ma ne parliamo un’altra volta.

Il Comandante Mark era il coraggioso capitano dei Lupi dell’Ontario, un gruppo di terroristi di patrioti pronti a combattere contro le malvagie Giubbe Rosse inglesi di Re Giorgio.

La base dei nostri eroi è un inespugnabile fortino su un isolotto nel lago Ontario da dove il mitico Comandante Mark parte per le sue avventure  insieme ai suoi insostituibili compagni Mister Bluff (ex corsaro ed ex compagno del padre di Mark), Gufo Triste (discendente di uno stregone, nonché capo delle tribù dei grandi laghi oltre che pessimista come pochi), El Gancho e Betty ovviamente innamorata del nostro eroe.

Fra intrighi e avventure, combattimenti e tradimenti si snodano. leggere e piacevoli, anche nei pomeriggi estivi di un bambino di sette anni, le avventure del Comandante Mark, dei Lupi dell’Ontario e i simpatici siparietti con Gufo Triste.

Ho visto su eBay che, volendo, si potrebbe acquistare l’intera collezione di fumetti ma, a parte il prezzo esagerato, non avrei un posto dove mettere altri 281 volumetti di questo fumetto  nato nel 1966 dalla penna di Pietro Sartoris, Dario Guzzon e Giovanni Sinchetto, tuttavia so che stanotte ci farò un pensierino ;-)

P.S. Dedicato alla mia amica Sam Bruno che mi ha fatto rivivere quei pomeriggi di 30 anni fa :-)

Io odio fare la coda! Non sopporto la coda alle casse del supermercato, la coda all’ufficio postale, non sono mai stato sulla Torre Eiffel… perché ODIO la coda. D’altro canto non sopporto nemmeno le affermazioni qualunquiste del tipo: «eh, non è vero che c’è la crisi, hai visto quanta gente in fila per comprare il nuovo iPhone!». Eh già perché, alla fine uno se ha tempo e soldi da spendere, ma anche se vuole indebitarsi per un telefonino saranno pure cazzi suoi, ma non è questo il punto.

La verità è che fare la coda alle due di notte per comprare un cellulare, è qualcosa di più di un moto di follia collettiva: significa, in un certo senso,  partecipare ad un evento, trascorrere del tempo con persone che hanno la tua stessa passione, socializzare e non è compito mio e di nessun altro stare a giudicare le passioni altrui o il rapporto prezzo/prestazioni del nuovo cazzillo con la mela bacata morsicata [1], altrimenti dovrei fare la stessa cosa per chi fa la coda allo stadio o si apposta il giorno prima ai cancelli per vedere un concerto di Vasco Rossi. Del resto io spendo un sacco di soldi in cazzate inutili bellissimi gadget, e se non fosse che dovrei essere un buon padre di famiglia ne spenderei tanti di più.

Nonostante il mio odio per le code, ricordo, con una sorta di nostalgia, le file chilometriche davanti alla segreteria dell’università nei giorni dell’iscrizioni, ricordo le chiacchiere con i colleghi e alcuni scambi di battute per infrangere la noia con ragazze più o meno carine e più o meno intelligenti, insomma non c’era Facebook e in qualche modo bisognava pur socializzare.

Tutto ciò per parlare dell’ultimo esempio clamoroso di coda da far scalpore, quella davanti al McDonald’s della Galleria Vittorio Emanuele a Milano. Ho pranzato in quel fast food un paio di mesi fa mentre ero a Milano per un convegno [2] ed in effetti è probabilmente la location più bella in cui ho trovato un McDonald’s, tanto bella da essere perfino discutibile, ma francamente penso che il comune di Milano sbagli a chiudere un punto di aggregazione per favorire l’apertura di un negozio di Prada ma, si sa, io sono di parte, adoro McDonald’s quasi quanto mi fanno schifo i panini che vende.

Tornando alla coda, il famoso fast food, prima della chiusura ha deciso di “ringraziare” la clientela affezionata offrendo panini e coca cola gratis a tutti e da qui la fila delle oltre 5.000 persone che ne hanno approfittato. Ma a pensarci bene, siamo davvero ridotti a fare tre ore di coda per elemosinare un panino o forse la stessa coda diventa un evento, un modo di aggregazione sociale? E’ evidente che  partecipare a quella coda per un panino abbia un significato che va oltre il premio finale; del resto, probabilmente, i nostri amici anglosassoni e la loro queue queste cose le hanno scoperte da tempo, anche se noi italiani rimaniamo sempre campioni mondiali di queue jump :-(

[1] OK è più forte di me, non riesco a non giudicare

[2] In quell’occasione ho avuto modo di scambiare tre parole con l’uomo alla ribalta delle cronache di questi giorni, il presidente della Regione Lombardia Formigoni (non ho letto i giornali magari non lo è già più), devo dire che a parte CL e la sua orrida camicia color carta da zucchero aveva una  prontezza nella battuta che non avrei mai sospettato in lui.

Riprendo un articolo di Alessandro Girola per parlare di un altro male che affligge il nostro paese il neo-luddismo italico. 

Siamo il paese dove la diffusione dei cellulari e smartphone assume percentuali imbarazzanti, dove si riesce a vendere un iPhone ai prezzi più alti del pianeta eppure ogni tanto si sente dire, dall’alto del concentrato di tecnologia che ognuno si porta in tasca: – eh, si stava meglio quando si stava peggio – ricordando la nostalgia di quei pomeriggi passati in strada a giocare a pallone dopo aver fatto i compiti.  – Da quando c’è internet i ragazzi non si relazionano più fra loro, diventano asociali e passano tutto il tempo con la testa dentro al monitor – che poi è la stessa cosa, aggiornata agli anni ’10 del ventunesimo secolo, che dicevano negli anni ’80 del ventesimo riguardo la televisione. – Eh, questi ragazzi, invece di giocare stanno tutto il tempo li a scimunire dietro ai cartoni animati giapponesi

Beh io che ero asociale, nel senso che non ho mai socializzato con i cretini, negli anni ’80-’90, quando ancora non c’era internet, prendevo la bici e me ne andavo in campagna a leggere un libro ma passavo anche i pomeriggi a guardare la TV e a cazzeggiare al computer e, francamente, se vedo mio figlio che dopo aver giocato al parco decide di buttarsi su un prato a giocare col Nintendo non mi scandalizzo più di tanto.

Potrei scrivere un trattato sul perché il progresso è meglio di un calcio nelle palle ma è inutile approfondire più di tanto la questione quando c’è gente che si porta addosso la tecnologia risultato di anni di ricerca spaziale e mi viene a dire, con quella certezza che non può che essere figlia dell’ignoranza, che l’uomo non è mai andato sulla Luna.

Preferisco quindi pensare a quelle che sono le rivoluzioni tecnologiche che hanno cambiato la mia vita e quella del’umanità negli ultimi venti anni (il personal computer, il telefono cellulare, lo smartphone, la fotocamera digitale, il navigatore satellitare, il climatizzatore, il tablet, gli e-reader…) e poi rimangiarmi tutto quello che ho detto! (beh quasi, dai…)

Eh sì, perché non sempre la tecnologia ti aiuta davvero. Nel 1971 la Gillette brevettò il primo rasoio bilama usa e getta, che poi sono diventate, tre, quattro fino a raggiungere  le sei lame accompagante dalle necessarie strisce idratanti per poter far scorrere il rasoio, dei recenti aggeggi venduti nei centri commerciali. Ogni nuovo modello di rasoio sembra sempre migliore rispetto al precedente, anche quando lo provi, eppure… sarà che io sono pigro e la barba la faccio ogni settimana, quando va bene, sarà che ho una barba molto folta, ma con l’ultimo modello di rasoio che ho comprato, per farmi la barba, ci sono volute due testine da 2 euro l’una, facevo prima e meglio ad andare dal barbiere :-)

Così ho deciso di tornare all’antico e mi sono comprato un rasoio di sicurezza, quello brevettato dalla Gillette verso la fine del 1800,  con le lame usa e getta in acciaio inox e… miracolo riesco a farmi la barba perfettamente in minor tempo e con una spesa effettiva di 5 centesimi! Già da tempo avevo abbandonato la schiuma da barba in bomboletta che più che idratare mi sporcava la camicia in favore del vecchio sapone da barba e pennello… beh ora posso davvero dire un altro mondo.

Non parliamo, poi, dei rasoi elettrici… che è meglio!

 

Settembre, il mondo artificiale vacanziero si infrange contro l’adamantina realtà: la vita quotidiana torna con tutti i suoi fastidi e le noiose sofferenze, la crisi torna prepotente a terrorizzare le notti dell’umanità, il modello standard risorge implacabile dal suo momentaneo oblio per tornare a nutrirsi delle anime dei suoi adepti.

La verità amara è che nessuno di noi può sfuggire a questo triste fato, ma ciò non vuol dire che almeno non ci si possa provare.

Ma andiamo con ordine, questo post prende spunto, da alcune discussioni fatte qualche giorno fa con alcuni amici e si concentra sulla definizione di Modello Standard su cui si basano le nostre vite elaborata da Davide Mana.

. da quando sei in grado di parlare, ti viene detto di tacere e ascoltare
. devi studiare
. se vuoi puoi “toglierti la soddisfazione” di prenderti una laurea, tanto non ti servirà
. poi ti trovi un lavoro onesto
. e ti fai una famiglia
. poi lavori per i quattro decenni successivi per guadagnarti una vita che spendi lavorando
. poi arrivi alla pensione, e te la godi
. poi muori
. ai tuoi figli tocca lo stesso destino… e così per l’eternità. Sarà bellissimo.

Il modello standard, quello che è stato propugnato con poche variazioni, a tutti noi dai nostri genitori e dalla società, in realtà non è immutabile ma cambia di generazione in generazione, solo che è sempre un passo indietro rispetto alla realtà e mentre tutti noi consciamente o meno cerchiamo di tendere ad esso, il bastardo muta e ci fotte. Ogni modello standard, infatti contiene in sé una promessa di felicità, vivi una vita di merda e ci sarà per te un tempo in cui potrai goderne i benefici, una promessa che, nel modello attuale, sappiamo non potrà essere mantenuta, non in questi termini almeno, ma che nonostante tutto ci induce a proseguire verso la strada dell’autodistruzione.

Perché?

Perché il modello standard è una convenzione sociale accettata e propugnata iterativamente e l’uomo è un animale sociale. Prendi la strada giusta e non sgarrare, se no poi te ne facciamo pentire (cit.) perché se qualcuno prova a uscire dal modello standard, se si prova a dire:

– no, io non mi accontento del lavoro di merda sottopagato nella fabbrichetta che si regge sul nero –

la società lo rimette subito in riga prima redarguendolo e poi emarginandolo, costringendolo a tornare sui corretti binari, fino a riportarlo nella massa di pecoroni belanti che in fila per tre marciano verso il baratro.

Eppure dovremmo tutti renderci conto che le cose sono cambiate, che questo modello standard, ammesso che sia realmente il paese dei balocchi che ci hanno prospettato, non è più perseguibile perché il mondo cambia in fretta e c’è la crisi, sì c’è la crisi di un modello economico-sociale che ha fatto il suo tempo; qualunque cambiamento corrisponde ad una crisi, alla crisi proprio del modello standard che  implodendo in se stesso lascia per strada i cadaveri di coloro che, irretiti dalle sue promesse di felicità, in esso hanno investito la propria vita, e genera gli zombie di quelli che nel modello ci credono ancora.

Non c’è una via di uscita facile dalle crisi che purtroppo non sono economiche ma di sistema e che possono solo essere cavalcate e in alcun modo contrastate, l’unica cosa giusta da fare è accettare il cambiamento e dice bene Alex Girola, parlando di lavoro, quando afferma

In un’epoca di grandi cambiamenti è auspicabile cercare di sfruttare al meglio le proprie risorse. Se abbiamo dei talenti è ora di sfruttarli. Se possediamo delle capacità che possono essere vendute, coniugando piacere e lavoro, è il momento di tentare questa strada.

Ma distaccarsi dal modello standard equivale a combattere prima contro un condizionamento interno e poi contro una società, per forza di cose conservatrice per preservare se stessa; non è una cosa facile e il più delle volte ti ritrovi di fronte a quello che ti fa capire che  “per guadagnare soldi devi fare qualcosa che odi, spezzarti la schiena e arrivare a sera possibilmente stravolto di fatica e sudato. Rigorosamente dalle 9.00 alle 17.00, altrimenti non è lavoro” (cit.).

Quasi che non fosse giusto cercare un lavoro appagante, un lavoro in cui ci si diverte, come se fosse sbagliato cercare di vivere intensamente le proprie passioni e di essere felici adesso e non, forse, poco prima di morire.

Io sono stato fortunato, ho cominciato a lavorare immediatamente dopo la laurea, a due passi da casa, facevo il programmatore, pagato non malaccio per gli standard meridionali; scrivere software è una cosa che mi è sempre riuscita dannatamente bene ma è anche un lavoro alienante, a tal punto che dopo nemmeno un anno mi sono rotto i coglioni e ho cominciato a cercare altro. La cosa divertente è che sono rimasto nel modello standard, non ho detto: Mollo tutto! E faccio solo quello che mi pare , ma ho semplicemente cercato di meglio e alla fine ho trovato rimanendo ancora nel modello standard, un lavoro migliore, pagato molto meglio e che mi consente entro dei limiti abbastanza  ampi di essere creativo. Nonostante tutto sono stato biasimato  dalla famiglia e dalla società  perché chi lascia la via vecchia per la nuova… 

Il vero problema del modello standard, però, non sono i vecchi che avrebbero tutte le ragioni di mantenere inalterato lo status quo, bensì i giovani, coloro a cui il futuro è stato negato che non solo non riescono a rinnegare il modello ma nemmeno ad accettare che il mondo possa funzionare (e che per millenni l’abbia fatto) in maniera diversa. Piccoli arrivisti disposti a calpestare prima se stessi, i propri sogni e le proprie passioni e poi gli altri pur di ricavarsi una piccola nicchia in cui prosperare, anche se, in realtà, nel sarcofago che si sono creati all’interno del modello standard c’è spazio a mala pena per la sopravvivenza; esseri insignificanti disposti a truffare, mentire e svendere se stessi per un i-Phone e un piatto di lenticchie, persone per le quali l’unica cosa importante sono i soldi e non come te li sei procurati.

Io, l’ho già detto, sono dentro al modello standard, sono stato condizionato a ricercarlo e ne sono consapevole, ci sono dei giorni in cui rimpiango di aver fatto certe scelte,  giorni in cui provo, in un certo senso, invidia per chi ha perseguito strade diverse, in certi casi più impervie, ma ci sono giorni, invece, in cui mi ricordo di essere fortunato, perché in realtà le mie scelte sono state consapevoli e non del tutto lontane dalle mie passioni e dai miei desideri ma sopratutto perché posso condividere sogni, emozioni e desideri con la mia compagna a cui, oltre tutto, mi legano simili apirazioni e identici punti di vista.

Ora, vi prego, tornate alla vostra crisi, tornate al governo ladro e alle tasse ingiuste, ricominciate pure a piangervi addosso perché voi siete le vittime mentre il carnefice è sempre qualcun altro.