Prendo spunto da questo

L’appel des 451 pour agir et sauver l’édition. Nous, le collectif des 451 professionnels de la chaîne des métiers du livre, avons commencé à nous réunir depuis quelque temps pour discuter de la situation présente et à venir de nos activités.

un appello lanciato su Le Monde da 451 professionisti della filiera editoriale, tradotto e riproposto da Repubblica per parlare di quella che si preannuncia una diatriba che a breve esploderà in maniera dirompente anche nel nostro paese; le prime avvisaglie si sono avute quest’estate con gli articoli della scrittrice Margherita Loy che ci fa sapere prima che «Non cederò mai all’e-book» e che poi si chiede se con l’«E-book, il futuro sarà snob e discriminante?» dandosi anche la risposta.

E-book VS cartaceo

Ora, parteggiare per il digitale o per il profumo della carta è francamente poco appassionante, l’evoluzione non si può fermare … al massimo la puoi prendere a colpi di clava per vedere se rallenta (cit.). Del resto anche Gutenberg quando introdusse la stampa a caratteri mobili a metà del  1400 ebbe i suoi problemi e le motivazioni oggi come allora sono sempre le stesse: soldi.

E’ inutile starci a girare intorno o fare le pulci alle inesattezze e all’ignoranza dei detrattori degli e-book; se io fossi uno scrittore affermato [1] la diffusione di strumenti di lettura pratici ed economici come i reader e-ink mi darebbe molto fastidio per almeno due motivi:

– mi sono fatto il culo (ovvero ho avuto il culo) di essere pubblicato da grossacasaeditricechemonopolizzailmercato e adesso vedo il mio piccolo orticello invaso da chi pretende di autopubblicare il proprio lavoro facendosi pagare € 0,99 su Amazon

– il mio capolavoro della letteratura può essere copiato con un paio di click, qualche click in più se ci metto DRM o altre diavolerie anti-copia che però mi rendono antipatico ai fans/lettori

Dal punto di vista della filiera editoriale, ovviamente, il problema è maggiormente sentito perché se é vero solo in parte quello che dice l’amministratore delegato di Amazon, Jeff Bezos, e cioè che «oggi le uniche persone indispensabili nel mondo dell’editoria sono il lettore e lo scrittore» è anche vero che nei posti dove gli e-book hanno superato il 50% del mercato editoriale le ripercussioni sulla filiera (case editrici, tipografie, librerie…) cominciano ad essere pesanti; un comunicato dal sapore squisitamente sindacale e tipicamente francese, come l‘appello dei 451 in cui si pone un problema ma non si offre alcuna soluzione che non sia esclusivamente programmatica «creando cooperative e centrali di acquisto, unendoci per ottenere condizioni salariali migliori, o ancora inventando luoghi e pratiche più adatti alla nostra visione del mondo e alla società in cui desideriamo vivere» tuttavia non serve a nulla se non ad alimentare polemiche.

Fra l’altro in questo tipo di invettive c’è sempre lo stesso errore di fondo che è quello di cercare di ottenere l’appoggio del lettore con ammiccamenti romantici («ah il profumo della carta») o facendo trapelare la velata  minaccia di un futuro infausto dovuto ad un falso progresso («gli e-reader sono costosi e c’è il rischio dei continui upgrade hardware» oppure «il valore di un libro diventa legato alle cifre di vendita e non al contenuto»). In realtà dalla diffusione dell’editoria digitale  il lettore ha tutto da guadagnare, non solo per una riduzione inevitabile dei prezzi di copertina, ma sopratutto perché, a dispetto di quello che affermano i talebani  della carta affetti da conflitto di interesse, gli e-book offrono al lettore[2] la possibilità di accedere a contenuti di autori indipendenti che mai saranno pubblicati da grossacasaeditricechemonopolizzailmercato. Certo il rischio di ritrovarsi sull’e-reader delle vaccate immonde è decisamente alto, ma alta è anche la possibilità di incontrare delle vere perle che mai avrebbero visti gli scaffali di una grossalibreriachemonopolizzailmercato.

Per chiudere, personalmente, ritengo che il progresso sia inarrestabile e che, come sempre, nelle fasi di cambiamento c’è chi saprà approfittare delle occasioni, cavalcandone l’onda, e chi soccomberà dopo averle tentate tutte per mantenere lo status quo. Un esempio per tutti le case editrici di libri scolastici:  nonostante, per legge, debbano fornire i contenuti anche in formato elettronico, si comportano in modo da ostacolare la diffusione del materiale non cartaceo mediante la vendita di contenuti misti(purtroppo previsti dalla normativa) o di contenuti digitali in formati improponibili, allo stesso prezzo o quasi del caro, vecchio librone da mettere in cartella. Questo è il tipo di resistenza che spazzerà definitivamente dal mercato i libri di testo sostituiti, per esempio, dagli e-book gratuiti degli stessi professori (cosa che mi è capitato di assistere proprio in questi giorni per la prima classe di un liceo classico) o, addirittura, pubblicati e distribuiti dalla stessa scuola.

Ringrazio Lucia Patrizi per la segnalazione dell’articolo di Le Monde

[1] essere uno scrittore affermato, in italia, non c’entra con il saper scrivere ma solo con avere la capacità o la fortuna di proporre il tema giusto al momento giusto o di conoscere qualcuno importante in grossacasaeditricechemonopolizzailmercato.

[2] per lettore non intendo colui che compra “50 sfumature di qualcosa” da leggere sotto l’ombrellone, ma immagino una persona curiosa, in grado di farsi delle domande e di distinguere un buon lavoro da lammerda(TM)

Sì lo so che ho alcuni metri lineari di libri da leggere impilati ovunque e sì, anche il Kindle, si sta riempiendo, ma in questi giorni mi sono riletto “La Tuta Spaziale” (Have Space Suit — Will Travel) romanzo per ragazzi scritto nel 1958 da Robert A. Heinlein. Avevo letto La Tuta Spaziale più o meno a 13-14 anni, è stato uno dei miei primi romanzi di fantascienza; ritrovai il libro spiegazzato e polveroso, nella soffitta di mio nonno, Arcangelo, vecchio appassionato di science fiction e noir e lo lessi in un pomeriggio.

Il romanzo di Heinlein racconta la storia di Kip, un ragazzo che ha deciso con tutte le sue forze di andare sulla Luna, ormai colonizzata, e per farlo è disposto a tutto, arruolarsi nelle forze spaziali, diventare ingegnere o medico ma anche… spedire migliaia e migliaia di slogan per partecipare al concorso indetto da una ditta di saponette che ha, come primo premio, proprio un viaggio andata e ritorno sulla Luna.

Kip non vincerà il concorso, pure se il suo è lo slogan selezionato altri avevano inviato la stessa frase prima di lui (ricordatevelo quando vi dicono che fa fede il timbro postale); se pure non può aspirare alla Luna, tuttavia, Kip vince un premio di consolazione: una vera tuta spaziale utilizzata durante la costruzione degli habitat sul nostro satellite che gli viene recapitata a casa fra squilli di trombe e rulli di tamburo.

Certo io una tuta spaziale la terrei in salotto, ma Kip ha  bisogno di soldi per l’università e decide di darla via in cambio di danaro, non prima , però, di averla rimessa in sesto, equipaggiata, rifornita e sopratutto provata. Da qui iniziano le avventure di Kip che lo porteranno da un negozio di frullati in un’oscura provincia americana ad essere rapito dagli alieni e imprigionato su un’astronave insieme a Peewee una ragazzina terrestre coraggiosa e intelligente quanto rompiscatole.  In breve tempo Kip non solo raggiungerà la Luna ma vivrà la più grande avventura che un uomo possa desiderare raggiungendo la Nebulosa Magellanica Minore, sconfiggendo mostri alieni incredibili e terrificanti, incontrando sagge creature millenarie  e contribuendo a salvare l’umanità… il tutto grazie all’aiuto di Oscar, la sua tuta spaziale.

Questo romanzo, nonostante sia un prodotto per adolescenti, rimane fra i migliori della produzione di Heinlein, ma a me, all’epoca, colpì per un altro motivo: la tuta spaziale.

Una tuta spaziale, anche quella descritta da Heinlein nel ’58, è un vero e proprio habitat in miniatura progettato per preservare, accudire e, perché no, coccolare il suo abitante: era proprio quello che mi ci voleva in quel periodo. Facevo brutti sogni e la notte non era proprio amichevole, credo capiti a tutti i ragazzini, dopo quella lettura cominciai ad addormentarmi immaginando di essere in una tuta spaziale, protetto, indistruttibile e pronto per avventure incredibili.

La tuta spaziale fa presto, nella fervida fantasia di un adolescente, a trasformarsi in una potente e invincibile armatura  e sarà forse per questo che ho sempre adorato  anime e film a tema. Visto che ci sono, dunque, è il caso di fare un piccolo riepilogo delle armature, tute ed esoscheletri che hanno accompagnato la mia adolescenza.

5) Saint Seiya – I Cavalieri dello Zodiaco

Le armature di bronzo dei cavalieri di Athena mi hanno sempre affascinato ma hanno il problema di essere, in un certo senso, magiche. Non c’è un reale motivo per cui quei pezzi di latta possano proteggere il corpo dei propri occupanti di cui lasciavano scoperto un buon 60%. In questo senso preferivo le armature dei “cavalieri d’acciaio” comparsi nei primi episodi della prima serie; tre sfigati al soldo della solita Lady Isabel che indossavano però delle avveniristiche armature tecnologiche.

4) Hurricane Polymar

Anche questa non è una vera e propria armatura.  Takeshi indossava una specie di casco da motociclista che aveva al suo interno un sistema tecnologico in grado di liberare il polyment , un particolare polimero che ne riveste il corpo rendendolo indistruttibile e trasformandolo in Polymar. Nemmeno questa è una vera armatura, per quanto indistruttibile e nonostante le capacità di trasformare il corpo di Takeshi in aereo o carro armato.

3) I Centurion

Quanti di voi si ricordano di questa serie animata andata in onda negli anni ’80 su Odeon TV? Sì, immagino che molti di voi non sappiano nemmeno cosa sia Odeon TV. Comunque I Centurion erano Max Ray , per le operazioni marine, Jake Rockwell, per le operazioni terrestri ed Ace McCloud per le operazioni aero-spaziali. I tre Centurions indossavano una suite da combattimento, Exo-Frames, in grado di teletrasportarli sul luogo delle operazioni. Gli Exo-Frames sono anche degli esoscheletri in grado di moltiplicare la forza e l’agilità umana e sono fatti in modo da adattarsi a vari sistemi d’arma che rendono i Centurions delle vere e proprie macchine da guerra.

2) Gordian

Gordian è  il super robot matrioska degli anni ’80 che nasce dalla combinazione  di tre macchine  Protesser, Deringer e Garbin ed è pilotato da Daigo, che entra all’interno di Protesser, il mecha più piccolo, che gli si adatta perfettamente come un’armatura da combattimento. A sua volta Protesser entra in Derringer e così in Garbin a formare Gordian. Già stare dentro Protesser comincia ad avvicinarsi alla mia idea di protezione da Tuta Spaziale, tuttavia non ci siamo ancora, dal momento che Protesser non è una vera armatura ma un mecha pilotato da Daigo con un collegamento telepatico e comunque raramente nella serie lo si vede combattere al di fuori degli alti due mecha.

1) Iron Man

Beh, Iron Man  spiega esattamente cosa io intendo per armatura protettiva.  Iron Man è uno dei più noti personaggi della Marvel Comics: la sua vera identità è quella di Tony Stark, magnate dell’industria bellica che progetta un’armatura composta da casco ( che contiene gps, radio, video comunicatore, comunicatore satellitare, raggi x ed infrarossi, computer, database, scanner), guanti (con raggi repulsori, raggi laser, mitragliatrici laser, emettitori di scudi), stivali( con razzi propulsori, missili, emettitori impulsi magnetici, lanciafiamme), busto (con  creatore di ologrammi, generatore di scudi e campi di forza, torcia, raggio di calore, raggio congelante, raggio paralizzante, laser, EMP), schiena (con eliche di emergenza, propulsori, lancia-missili, aero-freni, emettitore EMP e di scudi). L’armatura di Iron Man è in costante aggiornamento e negli anni ha anche cambiato varie volte colore fino a raggiungere l’attuale rosso e oro.

Fuori concorso ci sarebbe l‘armatura finale la più potente di tutte: Tekkaman

Tekkaman è un’armatura che si fonde con il suo ospite attraverso una camera di trasformazione all’interno del robot Pegas che, al pari di un’avveneristica vergine di Norimberga, tortura il povero George trasformandolo in Tekkaman, ricoprendolo di una corazza indistruttibile, aumentandone la densità e dotandolo e di armi micidiali. Il problema è che un uomo può sopravvivere come  Tekkaman solo per 37 minuti e 33 secondi. Tutto ciò rende l’armatura non sufficientemente amichevole da trascinarmi felicemente nel mondo dei sogni.

Beh detto questo concludo con un interrogativo che ha il sapore di una speranza: chissà se fra qualche anno i miei figli decideranno di leggere “La Tuta Spaziale”, un romanzo scritto nel 1958.

Da qualche giorno ho cominciato a guardare questo telefilm prodotto per la TV americana  TNT e riconfermato già per la quinta stagione. Il serial TV prodotto da John Rogers e Chris Downey, a partire dal 2008, è una serie d’azione e d’avventura con episodi di circa 45 minuti.

Leverage è il nome di una squadra eterogenea formata da un ex-investigatore assicurativo caduto in disgrazia e da quattro criminali professionisti specializzati in truffe, furti e effrazioni che insieme formano una squadra unita al motto di “I ricchi e i potenti si prendono quello che vogliono, noi vi ridaremo il mal tolt0” ed è proprio quello che fanno i ragazzi di Leverage, letteralmente “leva finanziaria” quella stessa che permette al potere di sovrastare la gente comune.

 

Ogni episodio del  telefilm si svolge secondo una trama ben definita. Il team, di quelli che si autodefinsicono “consulenti” , incontra il “cliente” e accetta il caso. Viene studiato il cattivo di turno e viene elaborato un “piano” che consiste in un qualche genere di truffa volta a ristabilire le giuste proporzioni. Le operazioni procedono e i ragazzi di Leverage sembrano  inizialmente avere la peggio, la truffa è nascosta anche al punto di vista di quello che guarda dal divano. Nel finale miracolosamente le parti si invertono e il bene trionfa mentre allo spettatore vengono spiegati, attraverso una serie di flashback, le fasi e le evoluzioni della truffa che erano state in precedenza celate.

 

Per i canoni attuali, Leverage, con il suo plot ripetitivo, la mancanza di un unico filo conduttore che si svela, piano piano, dietro ogni storia e i suoi enormi buchi di sceneggiatura può essere ricondotto ad un telefilm di serie B, ma è proprio questo il segreto del successo programma.

 

Leverage è una serie leggera che non prende mai troppo sul serio; non è necessario seguire ogni episodio nel giusto ordine per capirci qualcosa (La7 infatti li ha trasmessi a caso), non ci sono trame oscure e , complotti immaginari, sembra di tornare ai tempi di  A-Team con tutta la spensieratezza di una serie dove, nonostante le ambiguità di fondo, è chiaro chi sono i buoni, chi sono i cattivi e dove il lieto fine è assicurato.

 

Vediamo chi sono i protagonisti di Leverage:

 

Mastermind: Nathan Ford (Timothy Hutton) un ex investigatore assicurativo che dopo la perdita del figlio a causa del rifiuto della IYS, l’assicurazione per cui lavorava, di supportare le cure sperimentali che avrebbero salvato il bambino piomba in un periodo di crisi e depressione. Divorzia dalla moglie, lascia la compagnia, diventa un alcolista. Riesce a ritrovare, in parte, se stesso solo grazie alla squadra Leverage, di fatto una nuova famiglia, e grazie alla nuova attività dove non più servo di una multinazionale riesce realmente ad aiutare i bisognosi e a punire i malvagi là dove la legge non può arrivare.

 

GrifterSophie Devereaux (Gina Bellman) è un’aspirante attrice anche se nessuno ha mai avuto il coraggio di dirle che non è assolutamente portata per il palcoscenico ma, dotata di una naturale empatia e di una profonda conoscenza dell’animo umano, quando lavora come truffatrice e come ladra di opere d’arte,  è in grado di far venir fuori tutta la sua vena artistica riuscendo ad immedesimarsi in qualunque personaggio al punto di dimenticare, quasi, la sua vera identità che non è nemmeno quella di Sophie con cui è conosciuta dai compagni di Leverage. Sophie e Nathan hanno una chiara attrazione reciproca che per vari motivi stenta a decollare durante la serie

 

HitterEliot Spencer ( Christian Kane), picchiatore, guardia del corpo, ladro, assassino, cecchino, soldato. Imbattibile nel corpo a corpo  ed esperto di armi si autodefinisce “esperto di recupero”. Lui è il braccio armato di Leverage, quando c’è da menare le mani arriva Eliot; in diverse occasioni, tuttavia, si scoprono di lui dei lati sorprendenti sia dal punto di vista sentimentale che da quello più meramente intellettuale che lo portano in molte occasioni a tirare fuori dai guai i compagni.

 

HackerAlec Hardison (Aldis Hodge) esperto di informatica e di tecnologia è in grado di maneggiare qualunque tipo di apparecchiatura elettronica per metterla al servizio dei compagni. Non c’è banca dati in cui non possa entrare, non c’è sistema di videosorveglianza che non possa violare. Ama i trucchetti scenografici e le esagerazioni; il suo ruolo è indispensabile nella squadra.

 

Thief: Parker (Beth Riesgraf) ladra, acrobata, borseggiatrice. Orfana e vittima di un’infanzia difficile è diventata una ladra per necessità. Parker è in grado di forzare cassaforti, camminare su cornicioni, calarsi da un grattacielo con la stessa disinvoltura con la quale noi prenderemmo un caffè. Di fronte ad una situazione che implichi un carico emotivo, però, finisce in preda al panico. Nel telefilm si nota una certa attrazione con Hardison ma le circostanze e il carattere introverso di Parker non aiuta ad uno sviluppo in senso sentimentale della loro amicizia.

 

Beh vi lascio proprio con una galleria della bellisima Beth Riesgraf

 

Inizialmente avevo intenzione di parlare del’ultimo  film della trilogia del Batman di Christofer Nolan, poi mi sono reso conto che non solo arrivo ben ultimo ma che non sarei stato particolarmente originale non potendo  aggiungere alcunché  a quanto è già stato detto su Dark Knight Rises.  A voler proprio esprimere un’opinione il Ritorno del Cavaliere Oscuro è un film molto buono, forse un po lento in alcune parti e con qualche buco di sceneggiatura ma per certi aspetti potrebbe essere considerato il migliore della trilogia ciò, ovviamente, se i tre film potessero essere giudicati singolarmente e non come un’unica opera.

 

Quello che  invece farò, è parlare di Bane, il cattivone del film, quello che <spoiler> quasi spezza la schiena a Batman </spoiler>.

 

Quando sono uscito dal cinema la prima impressione su Bane è stata quella di aver visto il villain più ridicolo della storia dei fumetti al cinema. In verità la mia opinione su questo non è granché cambiata   a distanza di una settimana; la maschera con i tubicini che gli conferisce quell’aria da Dart Fener del Wrestling professionistico e la sua uscita di scena degna di Brutus in qualunque striscia di Popeye non rendono certamente onore al super cattivo che, nella saga Knightfall degli anni ’90, spedì Batman sulla sedia a rotelle; tuttavia, per tutta la settimana,  non ho potuto fare a meno di pensare al suo ruolo nella narrazione di quello che non è un film di supereroi come tutti gli altri.

 

Il vero protagonista della pellicola, infatti, non è Batman e non è certo il piccolo Bane; il reale protagonista del film è  la città di Gotham, la sua gente, la società. Eliminato Batman, Gotham City diventa terra di nessuno, diventa una città morta dove Bane e i suoi uomini promettono la libertà dell’anarchia mentre spadroneggiano sulle spoglie della città trucidando i dissidenti e i membri di quella che, con un termine in voga nell’italietta di oggi, si definisce casta. Gli abitanti di Gotham non sembrano particolarmente infastiditi dall’ingombrante presenza di Bane, anzi i più scaltri si uniscono a lui mentre gli altri sembrano rassegnati se non contenti di rinunciare alla libertà in cambio di una sorta di rivalsa nei confronti dei politici corrotti e dei faccendieri che avrebbero affamato il popolo, una rivalsa che ha il  sapore di una riscossa nei confronti di quel capitalismo  selvaggio che mette sempre in secondo piano l‘uomo; non a caso la falsa rivoluzione anarchica di Bane comincia dalla borsa di Gotham/New York.

 

Importa poco che il fine ultimo di Bane sia quello di radere al suolo la città con un ordigno nucleare, quel che conta realmente è che Bane è riuscito nell’intento di dare alla gente una speranza e, nonostante i pochi margini di manovra concessi dalla dittatura anarchica, la gente è riuscita dimostrare inequivocabilmente di essere morta dentro e di meritare davvero l’olocausto che gli si prospetta. Il film riesce a mostrare la parte peggiore dell’umanità a mettere in luce la debolezza che si cela nell’invidia sociale che si traduce in un falso tribunale del popolo dove l’ignorante diviene burocrate per fingere di amministrare un potere che non gli è mai stato realmente conferito.

 

Anche i dissidenti, i partigiani di questa invasione farzesca, non hanno reali argomentazioni contro Bane e contro il nuovo status-quo; a parte Gordon, che ha dalla sua la conoscenza, gli altri combattono per un ideale generico di libertà, una libertà che, a conti fatti, non avevano nemmeno prima, che non hanno mai avuto. Questo è il motivo per il quale i partigiani del film non sono mai realmente pericolosi per i piani di Bane e diventano un simbolo solo quando vengono impiccati mostrando al mondo intero, non solo a Gotham City, che non c’è più speranza.

 

Nemmeno il ritorno di Batman e il suo estremo (si fa per dire) sacrificio, porta ad una vera redenzione, il male continua ad aleggiare sulla città che nonostante le ferite, nonostante sia stata privata della casta è pronta a ricominciare come prima, è pronta ad accogliere un nuovo giustiziere mascherato che l’aiuti a smacchiarsi la coscienza più nera di un pipistrello nella notte.

 

Io non so se  Nolan volesse realmente dire tutte queste cose, probabilmente no, quel che è certo è che io non ho potuto non ritrovare una profonda similitudine fra la realtà immaginaria di una Gotham City corrotta da redimere e  quella forse meno immaginaria ma altrettanto stereotipata della nostra società. Una società dove eliminato un Jocker sono tutti pronti a seguire un pagliaccio, diverso nell’aspetto forse, ma non nel modo di parlare allo stomaco della gente e  ad alimentare i sentimenti peggiori delle persone cavalcandone l’invidia sociale e concedendo loro di vedere la luce da uno spiraglio di libertà che non gli sarà mai concessa.

 

Rileggendo tutto mi sono reso conto di aver parlato del film più di quanto avrei voluto contraddicendo l’inizio del post, ma ormai è fatta…

Settembre, il mondo artificiale vacanziero si infrange contro l’adamantina realtà: la vita quotidiana torna con tutti i suoi fastidi e le noiose sofferenze, la crisi torna prepotente a terrorizzare le notti dell’umanità, il modello standard risorge implacabile dal suo momentaneo oblio per tornare a nutrirsi delle anime dei suoi adepti.

La verità amara è che nessuno di noi può sfuggire a questo triste fato, ma ciò non vuol dire che almeno non ci si possa provare.

Ma andiamo con ordine, questo post prende spunto, da alcune discussioni fatte qualche giorno fa con alcuni amici e si concentra sulla definizione di Modello Standard su cui si basano le nostre vite elaborata da Davide Mana.

. da quando sei in grado di parlare, ti viene detto di tacere e ascoltare
. devi studiare
. se vuoi puoi “toglierti la soddisfazione” di prenderti una laurea, tanto non ti servirà
. poi ti trovi un lavoro onesto
. e ti fai una famiglia
. poi lavori per i quattro decenni successivi per guadagnarti una vita che spendi lavorando
. poi arrivi alla pensione, e te la godi
. poi muori
. ai tuoi figli tocca lo stesso destino… e così per l’eternità. Sarà bellissimo.

Il modello standard, quello che è stato propugnato con poche variazioni, a tutti noi dai nostri genitori e dalla società, in realtà non è immutabile ma cambia di generazione in generazione, solo che è sempre un passo indietro rispetto alla realtà e mentre tutti noi consciamente o meno cerchiamo di tendere ad esso, il bastardo muta e ci fotte. Ogni modello standard, infatti contiene in sé una promessa di felicità, vivi una vita di merda e ci sarà per te un tempo in cui potrai goderne i benefici, una promessa che, nel modello attuale, sappiamo non potrà essere mantenuta, non in questi termini almeno, ma che nonostante tutto ci induce a proseguire verso la strada dell’autodistruzione.

Perché?

Perché il modello standard è una convenzione sociale accettata e propugnata iterativamente e l’uomo è un animale sociale. Prendi la strada giusta e non sgarrare, se no poi te ne facciamo pentire (cit.) perché se qualcuno prova a uscire dal modello standard, se si prova a dire:

– no, io non mi accontento del lavoro di merda sottopagato nella fabbrichetta che si regge sul nero –

la società lo rimette subito in riga prima redarguendolo e poi emarginandolo, costringendolo a tornare sui corretti binari, fino a riportarlo nella massa di pecoroni belanti che in fila per tre marciano verso il baratro.

Eppure dovremmo tutti renderci conto che le cose sono cambiate, che questo modello standard, ammesso che sia realmente il paese dei balocchi che ci hanno prospettato, non è più perseguibile perché il mondo cambia in fretta e c’è la crisi, sì c’è la crisi di un modello economico-sociale che ha fatto il suo tempo; qualunque cambiamento corrisponde ad una crisi, alla crisi proprio del modello standard che  implodendo in se stesso lascia per strada i cadaveri di coloro che, irretiti dalle sue promesse di felicità, in esso hanno investito la propria vita, e genera gli zombie di quelli che nel modello ci credono ancora.

Non c’è una via di uscita facile dalle crisi che purtroppo non sono economiche ma di sistema e che possono solo essere cavalcate e in alcun modo contrastate, l’unica cosa giusta da fare è accettare il cambiamento e dice bene Alex Girola, parlando di lavoro, quando afferma

In un’epoca di grandi cambiamenti è auspicabile cercare di sfruttare al meglio le proprie risorse. Se abbiamo dei talenti è ora di sfruttarli. Se possediamo delle capacità che possono essere vendute, coniugando piacere e lavoro, è il momento di tentare questa strada.

Ma distaccarsi dal modello standard equivale a combattere prima contro un condizionamento interno e poi contro una società, per forza di cose conservatrice per preservare se stessa; non è una cosa facile e il più delle volte ti ritrovi di fronte a quello che ti fa capire che  “per guadagnare soldi devi fare qualcosa che odi, spezzarti la schiena e arrivare a sera possibilmente stravolto di fatica e sudato. Rigorosamente dalle 9.00 alle 17.00, altrimenti non è lavoro” (cit.).

Quasi che non fosse giusto cercare un lavoro appagante, un lavoro in cui ci si diverte, come se fosse sbagliato cercare di vivere intensamente le proprie passioni e di essere felici adesso e non, forse, poco prima di morire.

Io sono stato fortunato, ho cominciato a lavorare immediatamente dopo la laurea, a due passi da casa, facevo il programmatore, pagato non malaccio per gli standard meridionali; scrivere software è una cosa che mi è sempre riuscita dannatamente bene ma è anche un lavoro alienante, a tal punto che dopo nemmeno un anno mi sono rotto i coglioni e ho cominciato a cercare altro. La cosa divertente è che sono rimasto nel modello standard, non ho detto: Mollo tutto! E faccio solo quello che mi pare , ma ho semplicemente cercato di meglio e alla fine ho trovato rimanendo ancora nel modello standard, un lavoro migliore, pagato molto meglio e che mi consente entro dei limiti abbastanza  ampi di essere creativo. Nonostante tutto sono stato biasimato  dalla famiglia e dalla società  perché chi lascia la via vecchia per la nuova… 

Il vero problema del modello standard, però, non sono i vecchi che avrebbero tutte le ragioni di mantenere inalterato lo status quo, bensì i giovani, coloro a cui il futuro è stato negato che non solo non riescono a rinnegare il modello ma nemmeno ad accettare che il mondo possa funzionare (e che per millenni l’abbia fatto) in maniera diversa. Piccoli arrivisti disposti a calpestare prima se stessi, i propri sogni e le proprie passioni e poi gli altri pur di ricavarsi una piccola nicchia in cui prosperare, anche se, in realtà, nel sarcofago che si sono creati all’interno del modello standard c’è spazio a mala pena per la sopravvivenza; esseri insignificanti disposti a truffare, mentire e svendere se stessi per un i-Phone e un piatto di lenticchie, persone per le quali l’unica cosa importante sono i soldi e non come te li sei procurati.

Io, l’ho già detto, sono dentro al modello standard, sono stato condizionato a ricercarlo e ne sono consapevole, ci sono dei giorni in cui rimpiango di aver fatto certe scelte,  giorni in cui provo, in un certo senso, invidia per chi ha perseguito strade diverse, in certi casi più impervie, ma ci sono giorni, invece, in cui mi ricordo di essere fortunato, perché in realtà le mie scelte sono state consapevoli e non del tutto lontane dalle mie passioni e dai miei desideri ma sopratutto perché posso condividere sogni, emozioni e desideri con la mia compagna a cui, oltre tutto, mi legano simili apirazioni e identici punti di vista.

Ora, vi prego, tornate alla vostra crisi, tornate al governo ladro e alle tasse ingiuste, ricominciate pure a piangervi addosso perché voi siete le vittime mentre il carnefice è sempre qualcun altro.