• 600 g pomodori a pezzettoni
  • 350 g spaghetti
  • 100 g olive nere  snocciolate
  • 100 g acciughe sotto sale
  • 50 g capperi 
  • uno spicchio di aglio
  • un peperoncino rosso
  • olio extravergine d’oliva q.b
  • sale q.b.
  • pepe q.b.

Partiamo dalle alici, laviamole e tritiamole col coltello e passiamo a denocciolare le olive e farle a rondelle Ora tocca ai capperi che vanno sciacquati per ridurre la sapidità

A questo punto, in una padella facciamo soffriggere l’aglio nell’olio extravergine d’oliva e aggiungiamo le alici, i pomodori a pezzettoni, sale e pepe e facciamo cuocere per una decina di minuti aggiungendo olive e capperi.

Intanto facciamo bollire l’acqua in cui metterete a cuocere gli spaghetti. Quando la pasta sarà cotta, abbastanza al dente, la scoliamo e la saltiamo in padella col resto del condimento, facciamo cuocere per un paio di minuti e voilà possiamo impiattare.

Quella sopra è la mia ricetta per gli spaghetti alla puttanesca, per quattro persone. L’origine di questa pietanza si perde nella notte dei tempi, probabilmente nasce, ai primi del novecento, in qualche bordello nello stivale; mi piace credere, tuttavia, alla leggenda che narra di una puttana francese di nome Yvette che dopo aver dato origine a questo piatto con ingredienti di fortuna gli avesse dato il nome “puttanesca“, con estrema ironia, e in onore del suo mestiere.

Nigella Lawson

Resta il fatto che a distanza di oltre un secolo, nel petaloso 2021,  dopo storie di corna, cocaina e un divorzio burrascoso la giunonica (si può ancora dire giunonica?) Nigella Lawson, nota food influencer britannica, famosa per i suoi programmi di cucina sulle tv dell’Impero e per i suoi libri sempre a tema culinario, ha deciso di intraprendere l’ennesima, ridicola, battaglia per i diritti civili rinominando gli “spaghetti alla puttanesca” in “spaghetti alla sciattona”  eliminando dal nome della ricetta il termine slut, per non offendere la sensibilità delle donne, e sostituendolo con “Slattern” perché, ci spiega lei stessa in un tweet, quando la madre non aveva il tempo di spazzolarsi i capelli e preparava la cena usando qualunque cosa avesse in credenza, le diceva di fare slatterning, traducibile come sciatto, disordinato.

Cioè la signora Lawson assecondando il delirio MeToo che continua a imperversare in occidente, ha deciso di cancellare un secolo di cultura gastronomica italiana in nome di un ricordo di sua madre e, sopratutto, per non offendere le donne. 

Chissà cosa ne penserebbe la povera Yvette, che di essere una battona ci aveva fatto un bandiera.

Ma se pensate che siano i sudditi di Sua Maestà ad essere un branco di idioti complessati, sappiate che sono in buona compagnia, Non più tardi di qualche giorno fa, infatti, il Moige, sì ancora lui, il Movimento Italiano Genitori, quello che voleva censurare le tette di Bulma, è riuscito a far cancellare uno stupido spot televisivo dove Lino Banfi, si la macchietta con un accento pugliese farlocco che ha passato gli anni 70 a toccare le meravigliose poppe di Edwige Fenech, sul grande schermo, e che oggi si è trasformato in Nonno Libero nonché ambasciatore Unicef, recitava una delle sue migliori gag esclamando: “porca puttena“. Capite, dopo Instagram e TikTok i bambini di oggi sono influenzati da “porca puttena” di Lino Banfi.

Insomma dalla puttanesca alla puttena, il passo è stato veramente breve.

Un tempo l’Afghanistan si trovava sul percorso della Via della Seta, un reticolo di strade di circa 8.000 km  lungo il quale si sviluppava il commercio fra l’impero romano e quello cinese, un percorso che univa l’Asia meridionale con l’Europa, passando per il Medio Oriente. In particolare la città di Bamiyan ha visto passare e fermarsi, sul suo territorio, diversi popoli e culture; indiani, cinesi, greci, persiani confluirono nella città fra il V e il VI secolo facendone un centro religioso, filosofico e artistico  che tale rimase almeno fino all’invasione islamica del IX secolo.

Uno dei segni più rappresentativi di Bamiyan erano due statue di Buddha, scavate nella roccia fra il VI e il VII secolo e decorate di ori e gioielli.

Le statue hanno resistito nel tempo alle varie conquiste dell’Afghanistan e agli assalti religiosi dei vari conquistatori, hanno resistito fino al 2001, quando i talebani conquistarono il Paese e il clero islamico afgano bandì ogni forma di raffigurazione religiosa, ordinandone la distruzione. Dopo un mese di bombardamenti i due giganteschi Budda di roccia, patrimonio dell’umanità, nonostante la ferma opposizione internazionale, furono così ridotti in briciole. Questo perché eliminare qualunque vestigia di un nemico contribuisce a eliminarne traccia nel cuore di chi potrebbe ribellarsi.

Oggi, come allora, a distanza di vent’anni, non appena sono tornati al potere in Afghanistan, i talebani hanno fatto esplodere la statua di Abdul Azi Mazari, ex leader degli hazara, minoranza sciita afghana, ucciso nel 1995 e considerato eroe per la resistenza, stesso modus operandi e stesso motivo:  eliminare dal cuore degli oppositori ogni briciolo di speranza, cancellare i ricordi.

Quella di colpire le statue non è certo una caratteristica tutta talebana, l’idea di eliminare le tracce del passato dalla storia, per quanto dolorosa questa storia sia, è abbastanza trasversale. Nel 2002 la statua di bronzo di Saddam Hussein, nel centro di Baghdad fu abbattuta da un carro armato americano per essere consegnata alla furia degli iracheni. Nel 2010 invece la città georgiana di Gori rimosse la statua di Stalin per sostituirla con una dedicata ai caduti nella guerra contro la Russia. Sono del 2011, invece, le immagini dei ribelli siriani che appiccano il fuoco alla statua dell’ex presidente Hafez Al Assad nella piazza di Daraa, dopo la rivolta siriana, sorte molto simile ebbe il monumento di Muammar Gheddafi durante la rivoluzione libica, sempre nel 2011.

Certo, ci sono delle volte che ci si lascia anche prendere la mano con questa malsana idea di voler riscrivere la storia.

Nel giugno del 2020, quando il mondo era bloccato a causa della pandemia, migliaia di persone scesero in piazza per dimostrare sostegno al movimento Black lives matter(movimento attivista internazionale impegnato nella lotta contro il razzismo) dopo l’omicidio di George Floyd, un nero di 25 anni, da parte della polizia a Minneapolis, negli Stati Uniti. Durante questa ondata di proteste gli attivisti, come estremo gesto inclusivo, hanno pensato che distruggere il ricordo alcuni personaggi storici non fosse poi una cattiva idea, così con l’obiettivo di sradicare la supremazia bianca, vedremo cadere le statue di Cristoforo Colombo e di altri colonizzatori come Juan de Oñate e Junípero Serra. Ma vedremo anche vandalizzare George Washington, Andrew Jackson, Thomas Jefferson, Ulysses S. Grant e Theodore Roosevelt e rivisiteremo la Guerra di Seccessione rimuovendo le statue del Generale Lee.  Persino in Italia vedremo imbrattare la statua di Montanelli che al di là della sua professione di giornalista era stato comandante durante l’invasione italiana dell’Etiopia, dove aveva anche comprato una bambina di dodici anni.

La parola d’ordine è cancellare per dimenticare, senza contestualizzare o peggio contestualizzando malissimo e spesso funziona; è un modo come un altro per guidare le masse, indottrinare la gente e non importa quale sia il fine, non importa che a farlo siano i cattivi o i buoni, quello che importa è il mezzo ed il mezzo è davvero riprovevole, chiunque sia a pratricarlo.

Dalla fine degli anni ’90, in maniera ininterrotta, quelli che dai nostri salotti occidentali definiamo talebani, di fatto un’organizzazione politica e militare, a ideologia fondamentalista islamica, controlla il territorio dell’Afghanistan.

Certo dopo i fatti tragici dell’11 settembre 2001, a seguito dell’invasione militare statunitense, il disconoscimento da parte degli altri paesi arabi e il congelamento dei beni dell’organizzazione a livello internazionale, il potere politico del regime talebano si è di molto ridimensionato, ma di fatto la loro influenza sulla società afghana non si è mai attenuata. A nulla sono serviti i miliardi di dollari stanziati per “esportare la democrazia”, a nulla sono servite le associazioni umanitarie a vario titolo presenti sul territorio afghano e bisognose di una scorta armate per operare, sono bastati pochi accordi internazionali e la volontà degli USA di spostare i costi su altro genere di appalto militare per tornare esattamente come nel 2001, con in più una nuova spada di Damocle nei territori mediorientali derivante dagli interessi della Cina su quei teritori.

Ma questo non importa, la cosa importante è che adesso, sigh, le donne non potranno più frequentare l’università di Kabul, non potranno indossare bikini e minigonna, adesso non potremo più esportare il nostro linguaggio inclusivo, fatto di asterischi e alfabeto ebraico, insieme a una democrazia che nessuno ha cercato.

La parte divertente della giostra di indignazione che si legge sui social è che la presa di Kabul da parte dei taleban* (hai visto mai qualcuno si offenda) non ha spostato di una virgola le condizioni umanitarie del popolo afgano, costretto a vivere sotto il giogo di un regime la cui oppressione sulla società non è mai venuta meno. Gli americani hanno avuto per vent’anni il controllo di Kabul e del governo fantoccio afgano, ma fuori dalla capitale l’oppressione religiosa, le violenze, gli stupri non si sono mai fermati, ma tanto -lontano dagli occhi, lontano dal cuore-. L’importante è sentirsi, OGGI, parte del club dei buoni indignandosi di fronte ai racconti farlocchi di quello che verrà, sperando che adesso i talebani diventino moderati (ROTFL) e si possa dialogare con loro, salvo poi provare ripovazione di fronte alle immagini dei collaborazionisti (beh dal punto di vista talebano lo sono, eh), ben consci di ciò che gli aspetta, cadere dal carrello di un aereo o lanciare i figli oltre il filo spinato, senza curarsi minimamente del fatto che anche questa è colpa di chi per vent’anni non ha saputo vedere e che oggi ciancia di diritti umani violati dalla guerra, ma quale guerra? Qui non c’è nessuna guerra.

A riprova di tutto ciò un piccolo episodio di questi giorni vede il club dei buoni scagliarsi in forze dal divano, contro una vignetta, l’immagine del post, che in maniera sublime riassume tutto quanto ho sopra; perché, ragazzi miei, fatevene una ragione il problema dei diritti umani è formale e non sostanziale.

Diversi anni fa, prendendo spunto  da La Tuta Spaziale” (Have Space Suit — Will Travel), romanzo per ragazzi scritto nel 1958 da Robert A. Heinlein, scrissi un post sulle tute spaziali e sul loro impatto nell’immaginario collettivo.

Evidentemente non sono l’unico ad essere sempre stato affascinato da questo oggetto, protagonista dell’epopea per la conquista allo spazio, anche Elon Mask, infatti, durante la preparazione della missione Crew Dragon Demo-2, la prima missione privata con astronauti a bordo, partita ieri sera da Cape Canaveral alla volta della ISS, non ha tralasciato il design delle tute spaziali.

L’imprenditore si è rivolto, quindi, a Jose Fernandez, un famoso costumista di Hollywood, che da sempre ha lavorato alla creazione dei costumi per i supereroi realizzando i costumi di Wonder Woman, Wolverine, Captain America, Batman, ed eccoci così catapultati in un film di fantascienza degli anni 50, con delle tute spaziali diverse dai goffi scafandri usati fino ad oggi dalla NASA ma più simili alle armature di HALO 4 con i colori, bianco e grigio scuro, scelti dal nostro Elon Musk in persona.

Ovviamente le nuove tute spaziali non sono solo un grazioso outfit dall’indubbio gusto estetico, ma sono un vero e proprio ritrovato della tecnologia che non ha nulla da invidiare alle ACES (Advanced Crew Escape Suit) della NASA o alle Sokol russe, le tute di SpaceX sono leggere e perfettamente adatte a muoversi all’interno della Dragon e della ISS.  Le connessioni elettroniche e il  supporto vitale sono allocate sulla coscia e si agganciano al casco stampato in 3D, dotato di microfoni, valvole integrate e meccanismi per la retrazione e il bloccaggio della visiera; non ne è noto il costo ma è possibile ipotizzare che per la progettazione ex-novo di un sistema con le stesse caratteristiche di ACES, gli investimenti possano essere dell’ordine del mezzo miliardo di dollari.

Ovviamente, quelle di SpaceX, non sono tute per attività extraveicolari, per quel tipo di attività verranno ancora usate le tute modulari semirigide americane EMU o le Orlan russe.

 

In uno dei commenti ormai sparsi per la social-sfera al mio articolo su Amazon Go, mi sono sentito dire che ci sarà la “profilazione definitiva”. Ora, ovviamente, questo è un commento tanto corretto quanto stupido. E’ chiaro che l’automazione porti alla profilazione degli utenti e puoi regolamentare la cosa quanto ti pare, alla fine non saprai mai che fine fanno i tuoi dati e le eventuali sanzioni, pesanti quanto vuoi, GDPR o meno, si ripagheranno sempre. Non c’è bisogno di Amazon Go, i nostri dati viaggiano sui social, con gli acquisti online, attraverso le telecamere stradali e di sicurezza e sulle schede fedeltà; ed è proprio di queste ultime che voglio parlare.

La risposta più facile da dare a quel commento idiota era proprio che esistono le schede fedeltà con punti e premi, che in un modo o nell’altro devono essere autorizzate, e che fanno profilazione  da decenni ma proprio mentre pensavo questo mi è balenato alla mente che io, già in base al Dlgs 196/2003 e ancora di più in base al Regolamento Ue 2016/679, il famoso GDPR, ho tutta una serie di diritti da accampare su quei dati, perché dunque non ho la facoltà di accedervi? Pensate a quanto sarebbe comodo avere un pannello di controllo che in base a tutte le spese effettuate faccia dei report statistici personali per categoria merceologica, frequenza di approvvigionamento, scostamenti dai budget. Certo ma se uno fa la spesa in più supermercati, questi dati sarebbero incompleti. Da qui l’idea di obbligare tutti gli store(Di Maio ascoltami questa è materia tua) a comunicare a un ente centrale tutti i dati di tutti gli utenti in tempo reale in modo da dare all’interessato contezza di tutte le informazioni che lo riguardano creando per lui una dashboard che gli fornisca indicazioni su come gestire la propria spesa anche raffrontando i prezzi dello stesso articolo o della stessa tipologia di articolo in diversi periodi e su diversi negozi. Immaginate le possibilità per gli utenti di scegliere e persino di avere un app come Bring che, utilizzando i dati raccolti e messi a disposizione in maniera anonima e in formato open,  data la lista della spesa dell’utente, gli dica in quale supermercato fra quelli in cui va abitualmente a fare la spesa c’è il prezzo più basso di ogni articolo in un determinato momento.

Ma non finisce qui. Immaginate tutti questi dati in pasto all’Istat, con gli opportuni correttivi si avrebbero delle statistiche puntuali dei consumi e questo aiuterebbe anche a fare delle scelte maggiormente mirate in sede di imposizione fiscale e di programmazione economica, i benefici di una cosa simile sarebbero illimitati.

E mentre sogno un futuro in cui l’uomo non abbia paura del progresso, tocca fare i conti con la dura realtà di un Italia in cui sono stati ridotti gli investimenti (europei) per la banda larga per (tentare) di dirottarli per lo sviluppo della piccola impresa, quel modello di business tardo ottocentesco il cui obiettivo è concedere all’imprenditore la possibilità di acquistare l’ultimo SUV.