L’eruzione del vulcano Eyjafjallajokull (meno male che devo solo copincollarlo e non pronunciarlo) ha mostrato quanto possa essere vulnerabile l’attuale sistema di trasporti che è ormai alla base del nostro modo di vivere; l’altro giorno parlando con un amico ho tirato fuori: -che ne dici se passiamo il primo maggio a Londra- e poco dopo mi sono reso conto di averlo detto come fosse una cosa normale, come se si trattasse di andare a fare un fine settimana fuori porta. E’ bastata un po’ di “cenere” vulcanica proveniente dall’Islanda, tuttavia, per paralizzare l’intero apparato di trasporti nel Nord Europa, bloccando le attività di capi di stato, capitani di industria e, ci manca poco, pure il calcio. I media sono pieni delle cronache di merci deperibili rimaste a marcire in qualche posto esotico e di gente bloccata nei posti più impensati dove si era recata per motivi assolutamente ludici.
Se da un lato questo breve ritorno a mezzi di trasporti più “slow” può servire a far riflettere su alcuni eccessi dall’altro non si può più tornare indietro, non possiamo immaginare di utilizzare la nave per raggiungere gli Stati Uniti o attraversare l’Europa in convogli trainati da locomotive a vapore. Certo ci sono sempre gli pseudo-intellettuali ambientalisti pronti a inneggiare al vulcano per un ritorno alle origini che vedrebbe, loro, per primi, in serie difficoltà, ma questi è meglio che facciano un brainstorming su come salvare il mondo dai sacchetti di plastica. Dal canto mio, penso che una sciocchezza come un eruzione in Islanda non possa e non debba bloccare metà del mondo e quindi, per quanto io ritenga che le misure intraprese siano state opportune, bisogna immaginare un sistema di trasporti più robusto, che siano treni ad alta velocità o nuovi motori per gli aerei l’Eyjafjallajokull deve insegnarci che dipendiamo da sistemi che si dimostrano ogni giorno fragili e non mi sembra sia il caso di arrendersi a questo.

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